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Immagine del redattoreMarco Travaglini

Cinque aprile 1944, i fiori rossi del Martinetto

"Qui caddero fucilati dai fascisti i martiri della Resistenza Piemontese. La loro morte salvò la vita e l'onore d'Italia. 1943-1945". Ventuno parole e due date scolpite sulla lapide posta al centro del Sacrario del Martinetto, in corso Svizzera all’angolo con corso Appio Claudio, nella zona Campidoglio della IV circoscrizione di Torino. Nella prima capitale d’Italia una parte rilevante della toponomastica è dedicata al ricordo della Resistenza antifascista e uno dei luoghi più simbolici che in un certo senso riassume tutta la storia dei venti mesi della lotta partigiana e dell’opposizione al fascismo durante il ventennio della dittatura è senz’altro l’ex poligono di tiro scelto dai repubblichini dopo l'8 settembre del ‘43 come luogo d'esecuzione delle sentenze capitali.

Al Martinetto, in quei venti mesi ribelli di ferro e di fuoco, vennero fucilati sessantuno partigiani e resistenti piemontesi tra i quali gli otto membri del comitato regionale militare piemontese della Resistenza. L’esecuzione avvenne  ottant'anni anni fa, il 5 aprile del 1944. Quel giorno le vite di Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimino Montano e Giuseppe Perotti furono stroncate dalle scariche di fucileria della Guardia Nazionale Repubblicana. Il 5 aprile di ogni anno la Città di Torino, le istituzioni e associazioni democratiche li ricordano insieme a tutti gli altri antifascisti i cui nomi sono riportati sulla lapide dedicata “Ai nuovi martiri della libertà”, collocata nel recinto delle fucilazioni, unica parte sopravvissuta del grande poligono di tiro. Il sacrario del Martinetto è uno dei luoghi più simbolici della Resistenza torinese.

La lapide che ricorda i martiri venne scoperta con una solenne cerimonia l’8 luglio 1945, alla quale presero parte il cardinal Maurilio Fossati, l’allora ministro Giuseppe Romita, il sindaco Giovanni Roveda e il presidente del Cln regionale piemontese Franco Antonicelli che ricordò la decisione del Clnrp, presa ancora nella clandestinità, di costituire il luogo in sacrario. In quel memorabile intervento Antonicelli disse: “Le generazioni nostre hanno creduto a lungo che l’età dei martirii fosse conclusa per sempre nella nostra storia e nella storia civile del mondo. Invece, col dramma della libertà, si è riaperta la serie dei grandi olocausti e delle solenni testimonianze. E così abbiamo compreso che per la nostra esperienza di uomini tutto va riedificato: l’amore e il dolore, la colpa e il riscatto, l’infamia e la purezza, l’arco di trionfo e il Martinetto. […] Io leggo l’elenco, non ancora forse completo, dei 61 martiri, e vedo, l’uno dopo l’altro, tra il 16 gennaio 1944 e il 15 aprile 1945 succedersi un operaio e un impiegato, un artigiano e un ingegnere, un geometra e un bibliotecario, uno studente e un professore d’Università, un generale e un sottufficiale, un soldato e un partigiano. Ma partigiani tutti; tutti degni di quel nome che da noi va adoperato non come tessera di privilegi ma come titolo di onore, quel nome – e quella realtà – che per noi è la maggiore, la più straordinaria realtà di questa nostra veramente sacra e veramente civile guerra italiana”. Dopo la guerra il poligono venne smantellato, trasferendolo nel 1951 alle Basse di Stura mentre la zona delle esecuzioni venne dichiarata “luogo sacro di interesse nazionale”. L’attuale sistemazione risale al 1967 quando venne mantenuto, circondato da un piccolo giardino, il solo recinto delle esecuzioni, essendo stata abbattuta la gran parte della struttura, sulla cui area sono sorti gli attuali palazzi d’abitazione. All’interno, il cippo posto sulla spalletta, la già citata lapide e una teca contenente i resti carbonizzati di una sedia usata per le fucilazioni.

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